Sui sentieri dei 150 anni

Sentiero 9 – In Val dei Mocheni: il Rifugio Sette Selle

Una passeggiata nella valle delle miniere: verso l’ultimo rifugio SAT

Si tratta del principale tracciato d’accesso al Rifugio Sette Selle dalla Val dei Mocheni.

Gruppo Montuoso: Lagorai

Comuni: Palù del Fèrsina / Palai En Bersntol

Difficoltà Generale: E

Sentieri SAT: E343

Itinerario: Salita da Palù del Fèrsina al Rifugio Sette Selle

Dislivello salita / discesa: ↑408 m / ↓0 m

Nome Località N. segnavia Quota (m.s.l.m.) Distanza (metri) Andata (hh:mm) Ritorno (hh:mm) Diff.
Frotten – Palù del Fèrsina 1526 00:30
Baite del Làner [343] 1746 890 00:40 00:15 E
Croce del Làner [343] 1850 520 00:20 00:15 E
Indertol [343] 1952 810 00:15 00:05 E
Rifugio Sette Selle [343] 1974 280 00:05 E
Totali 2500 01:20 01:05

L’itinerario inizia dall’ampio posteggio in località Frotten/Vròttn, poco a monte di Palù del Fèrsina/Palai en Bersntol (strada asfaltata), interseca la strada forestale per la vicina miniera-museo di Erdèmolo/Grua va Hardimbl, risale ripido nel bosco di conifere e arriva alle baite del Làner. Qui entra nel fitto del Bosco dei Canopi/Knòppnbòlt e, dopo alcuni comodi tornanti, intercetta da sinistra il sentiero 370, sbucando poco oltre su un panoramico prato con un crocefisso in legno, noto come Croce del Làner/Kraiz van Làner.
Con moderata pendenza prosegue nel rado bosco di abeti e larici, supera il bivio col sentiero 324 per il Lago di Erdèmolo/Sea va Hardimbl e giunge al Rifugio Sette Selle. Il panorama sulle cime rocciose che incombono sulla conca del rifugio si fa via via più ampio e, soprattutto, ci offre un superbo colpo d’occhio sull’appuntita e scoscesa vetta di Cima Sette Selle e la vicina e tormentata cresta del Sasso Rosso, le principali cime della zona, note anche per gli eventi ed i resti di imponenti opere legati alla Grande Guerra.

La Valle dei Mòcheni, o Valle del Fersina, è uno straordinario luogo dove una natura ancora selvaggia si sposa con usi e costumi unici e una lingua misteriosa. Oggetto di studio e contrapposizione nazionalistica, questa “oasi” tedesca venne studiata da illustri ricercatori a partire dalla fine del XIX secolo. Nella sua “Guida di Pergine Val dei Mocheni e Pinè” (1904) Cesare Battisti così ripercorre la storia della maggiore industria della valle: «Per quanto incerte sieno le notizie storiche sulle miniere nella valle della Fersina si può affermare che esse erano in attività nel XII secolo poiché di miniere si parla esplicitamente nel già citato documento perginese del 1166. Fra i minatori prevaleva l’elemento tedesco, immigrato, dietro invito dei signori del luogo, come per buone ragioni si può congetturare, dalla Franconia. Esse però raggiunsero maggior importanza solo nei secoli posteriori e fu nel 1500 che l’imperatore Massimiliano istituì un ufficio minerario con residenza a Pergine in via Mercatello. Durante il Concilio di Trento le miniere devono aver avuto un periodo di fiorente attività se si ha a credere alla descrizione che di esse ci ha lasciato Angelo Massarello, segretario del Concilio, il quale tra il resto dice: “Vi sono in quel paese 32 cave in un solo monte, quale è tutto di miniere. Talché in un fiumicello a piedi spesse volte ci si trova di argento e di oro, sasso di piombo, rame et miniere infinite”… Lo scavo delle miniere deve esser stato regolato dallo statuto minerario del vescovo Federico Vanga, e in genere da ordinanze dei principi vescovi, dalle norme delle maestranze e in fine dall’ufficio minerario… Le miniere decaddero del tutto al principio del secolo scorso. Ci fu nel 1816 un tentativo di far risorgere l’industria e il direttore delle miniere pubblicava in proposito un avviso per la vendita di azioni, ma abortì. L’ufficio minerario di Pergine fu soppresso nel 1841».

Sull’origine della popolazione e della lingua, invece scrive: «A quest’azione germanizzatrice dei castellani e dei feudatari s’aggiungano le immigrazioni di minatori tedeschi, venuti dal Tirolo e da altre regioni per trar profitto delle miniere, ed avremo spiegato il fenomeno dell’oasi tedesca nel perginese, che verso il 1100 era, secondo i chiari indizi della toponomastica, abitato da gente italiana. Ciò che inoltre è decisivo per affermare che si tratta di gente immigrata dopo il 1000 è che le caratteristiche del dialetto mocheno rispondono a quelle dei dialetti alto-tedeschi del secolo XII e XIII. Queste parlate alto-tedesche trapiantate in questi secoli in territori italiani – fuori da ogni civile contatto – non ebbero più modo di seguire l’evoluzione subita dai dialetti in patria e presentano un fenomeno analogo alla conservazione del ladino negli estremi recessi delle nostre alpi». 

Dai tempi di Battisti la ricerca sull’origine dei Mòcheni e sulla storia mineraria è stata portata avanti, specialmente grazie all’attività dell’Istituto culturale mòcheno (Bersntoler Kulturinstitut, istituito con legge provinciale nel 1987), a Palù del Fersina. La lingua, gli usi, i costumi delle minoranze linguistiche locali (mòcheni, cimbri e ladini) sono tutelati con un’apposita legge provinciale (19 giugno 2008, n. 6), che le riconosce quali «patrimonio irrinunciabile dell’intera comunità provinciale».

Il viaggiatore che si addentra in questa valle percepisce subito un’atmosfera particolare, unica. Forse è l’aleggiare di antiche leggende che crea un’atmosfera magica, le stesse conosciute anche grazie all’opera di Giuseppe Šebesta (Trento 1919 – Fondo 2005). Il grande etnografo di origine boema, fondatore del Museo degli usi e costumi della gente trentina a San Michele all’Adige nel 1968, era particolarmente attratto dalla Valle dei Mòcheni, alla quale dedicò molti suoi studi e racconti, alcuni ambientati nel sottosuolo: «In Valcava c’era una vecchia miniera che aveva dato sempre il suo argento ai minatori, ma questi, con il passar del tempo, avevano dimenticato i patti che li legavano ai nani della miniera. Ne avevano imprigionati due torturandoli con le tenaglie infuocate, perché svelassero loro l’ubicazione di un nuovo filone. Uno era morto maledicendo i minatori. L’altro era riuscito a fuggire nascondendosi nelle voragini più profonde della terra. Una notte il vecchio Gasparo, passando per Valcava, si sentì così stanco da doversi fermare e, per la grande paura, si arrampicò in cima ad un abete. Si addormentò, ma si svegliò più tardi per uno strano parlottìo che gli giungeva dai piedi dell’albero. Aguzzò la vista, drizzò gli orecchi. Due nani, vestiti con le giubbe rosse, discutevano animatamente. “Io” diceva uno “ho spostato il Ponte di Pecori”. “Io” spiegava il secondo “ho spostato il Dosso delle Fraghe e l’ho perfino trasformato”. “Ma che bel ridere, che bel ridere” sussurrarono in coro “che faremo da domani in poi. Ma che bel ridere… Avrà ben da ripetere Gasparo che la miniera si trova in dritta retta fra il Ponte di Pecori e il Dosso delle Fraghe!”. Quando il canto di un gallo dal maso Màrcheli [all’inizio della Val Cava, nei pressi di Palù del Fersina] annunciò l’alba i due nani sparirono per incanto. Solo più tardi, ma molto più tardi, quando il sole sfiorò lo Hoabont, Gasparo scivolò giù tremante dall’albero. Raccontò ai minatori la sua storia nella Casa Canòpa, ma questi lo derisero. Poi ci pensarono un momento e si decisero a salire in Valcava. Ritrovarono il Ponte di Pecori, il Dosso delle Fraghe. Tirarono un sospirone. Poi cominciarono a cercare l’entrata della miniera, ma per quanto si dessero da fare, non la trovarono più. Così Valcava, dopo molte altre ricerche, fu abbandonata da quei minatori e nella loro testa la miniera divenne soltanto un meraviglioso ricordo» (Giuseppe Šebesta, “Fiaba-leggenda dell’Alta Valle del Fèrsina e carta d’identità delle figure di fantasia”, 1980).

Chiuso da tempo il rifugio al Lago di Erdemolo, l’unica struttura ricettiva attiva in zona è il rifugio Sette Selle, nell’incontaminata Alta Val Làner. Vicino alla base di partenza (Frotten) si apre la miniera di calcopirite Grua va Hardömbl, coltivata sin dal XVI secolo e ora facilmente visitabile con guide.

Tornando al rifugio, va detto che a suo modo pur esso è simbolico, poiché rappresenta l’ultimo edificato dalla SAT. I lavori, realizzati dalla Sezione SAT di Pergine, iniziarono nel 1975 sopra ad un baito costruito da Pietro Lenzi, che a sua volta aveva adeguato una vecchia baracca della prima guerra mondiale. Tra i maggiori sostenitori dell’idea di un nuovo rifugio, che avrebbe dovuto sostituire la cessione del rifugio Panarotta, c’era Adolfo Valcanover, presidente della SAT di Pergine e motore della Commissione sentieri SAT. Il nuovo rifugio venne inaugurato il 7 ottobre 1978.

Chiunque abbia percorso una strada che sale in quota o abbia ammirato da una certa distanza una montagna si sarà accorto che la vegetazione cambia notevolmente in base all’altitudine. Varie specie vegetali sono, infatti, distribuite entro fasce (o piani) altitudinali ben precise e corrispondenti, in genere, a condizioni ambientali e climatiche omogenee, che selezionano in maniera primaria la distribuzione della vegetazione. Ogni rilievo può essere suddiviso in piani altitudinali caratterizzati da paesaggi e vegetazione simili. Questo è dovuto principalmente agli effetti dell’altitudine e dell’esposizione nord-sud del versante su vari parametri ambientali, fra cui i principali sono la temperatura e l’umidità. In realtà, entro ogni piano esistono altri fattori che influenzano la scomparsa o la comparsa di specie caratteristiche, primo fra tutti la composizione del suolo. Tutte queste caratteristiche fanno sì che non sia facile trovare una linea di demarcazione netta tra le varie fasce vegetazionali. Premesso questo, sulle Alpi sono distinguibili, nella maggior parte dei casi, 5 piani altitudinali.

Il piano basale o collinare arriva fino a circa 500 metri ed è caratterizzato da boschi misti di latifoglie (carpino, quercia, castagno e nocciolo). Il piano montano, talvolta suddiviso in montano e sub-montano, ha un limite superiore che può variare anche molto ma generalmente si attesta attorno ai 1.500 metri. La vegetazione tipica di questa fascia può essere sia di latifoglie (faggio e betulla), sia di conifere (l’abete bianco trova ampia diffusione). Il piano sub-alpino, invece, termina approssimativamente attorno ai 2.000 metri, è prevalentemente caratterizzato da boschi di conifere (abete rosso, larice e pino cembro) ed è anche indicativo del limite del bosco. Sopra queste quote, infatti, si trovano prevalentemente varie specie arbustive ed erbacee tipiche del piano alpino che si estende fino a circa 3.000 metri di quota. Infine si ha il piano nivale, caratterizzato da temperature mediamente basse e dal manto nevoso che permane per buona parte dell’anno. In questo piano, non coperto da uno strato vegetazionale continuo, si possono trovare prevalentemente muschi e licheni.

Seguendo l’itinerario che da Frotten porta al Rifugio Sette Selle è possibile distinguere chiaramente varie fasce vegetazionali differenti. Si parte in un bosco costituito in prevalenza da abete rosso che, proseguendo nella camminata, viene sostituito gradualmente dal larice mentre nel sottobosco cominciano a comparire vari arbusti fra cui il ginepro nano ed il rododendro. Nella prossimità del rifugio i larici si diradano lasciando sempre più spazio alla sola vegetazione arbustiva che, salendo ulteriormente, si dirada a sua volta in favore dei prati e pascoli alpini. Seguendo questo percorso è quindi possibile vedere la bellezza delle varie tipologie e specie di piante che si susseguono procedendo sempre più in quota.

La Valle dei Mocheni, caratterizzata nella morfologia da marcati connotati alpini e contraddistinta nel paesaggio antropico da caratteri derivati dalla colonizzazione tedesca medievale, si è impostata inizialmente lungo una linea di frattura che ha spezzato la continuità della rigida compagine di rocce di origine vulcanica effusiva. L’erosione espletata dai ghiacciai del quaternario ne ha allargato la sezione, ma è infine al millenario lavorìo del Torrente Fersina che si deve la caratteristica conformazione a “V”. L’itinerario proposto si sviluppa nell’alta valle, dove affiorano esclusivamente le vulcaniti riolitiche e andesitiche, rocce vulcaniche tradizionalmente chiamate “porfidi” ma che sono in realtà una complessa successione di corpi rocciosi di composizione e natura diversi, sovrapposti ed affiancati. La loro origine risale al Permiano inferiore (290-270 milioni di anni fa), quando in tutto il territorio che si trasformerà poi nella catena alpina, la crosta terrestre subisce uno stiramento che innesca imponenti sprofondamenti e, di riflesso, anche una marcata attività magmatica i cui prodotti, risalendo lungo zone di debolezza della crosta, in parte vi si intrudono, senza mai uscire alla luce, in parte raggiungono la superficie, sviluppando un articolato sistema eruttivo che colma progressivamente le depressioni superficiali. Nel giro di pochi milioni di anni l’attività magmatica produce grandi quantità di rocce di diversa composizione chimica e concretizzatasi in una imponente successione di vulcaniti di colore rossastro e violaceo, estese soprattutto nel Trentino orientale tra Lagorai, Valle di Cembra, Altopiano di Piné e Valsugana ecc. per una superficie totale di oltre 2.000 kmq. I prodotti vulcanici, emessi in corrispondenza di grandi fenditure della crosta terrestre, raggiungono in alcuni settori uno spessore superiore a 3.000 m. Le differenti tipologie di effusione hanno creato le più disparate strutture vulcaniche, dai vasti ripiani tabulari alle cupole, dagli edifici vulcanici ai depositi di piroclastiti. I prodotti dell’ultima fase dell’attività sono costituiti prevalentemente da ignimbriti che, grazie alla caratteristica fratturazione a “lastre”, che un tempo si sfruttava largamente per la realizzazione della caratteristica copertura dei tetti delle abitazioni locali al posto delle più comuni tegole, sono ancora oggi ampiamente sfruttate per ricavare lastre da impiegare in edilizia, per produrre i “cubetti di porfido” (chiamati anche “bolognini” o “sanpietrini”) utilizzati soprattutto nella pavimentazione stradale, e come pietre ornamentali. 

Da ricordare infine che, a poca distanza dal primo tratto del tracciato proposto si trova un’interessante e storica miniera visitabile (De Gruab va Hardimbl – La miniera di Erdemolo), coltivata tra il XIV e XVI secolo. Grazie alla particolare struttura e storia geologica, infatti, in Valle dei Mòcheni da secoli si è sviluppata una tradizionale quanto leggendaria attività mineraria, volta allo sfruttamento di numerosi giacimenti di ricercati minerali quali pirite, calcopirite, arsenopirite, quarzo, fluorite, barite, solfuri ecc. L’attività mineraria ha antichissime origini (si pensi ai forni fusori dell’età del Bronzo – XIII-X sec. a.C. – presso il limitrofo Passo del Redebùs), sebbene sia tra XV e XVI sec. d.C. che raggiunge il suo massimo sviluppo.

Rifugio Sette Selle   [SAT]

località quota comune recapiti posti letto locale invernale
Val Làner m 1978 Palù del Fèrsina

0461 550101

347 1594929

rifugiosetteselle@gmail.com

26 Sì, 4 posti

Apertura: 20 giugno – 20 settembre e usualmente nei fine settimana

Si trova nella parte alta dell’Intertol, o Val del Làner, una pittoresca valletta alla testata della Valle dei Mòcheni, dominata dalla piramide della Cima Sette Selle e dalla lunga e frastagliata cresta rocciosa che la separa dalla Val di Calamento. Fu costruito, in seguito alla cessione dell’ex rifugio Panarotta, a partire dal 1975 grazie al lavoro dei soci della Sezione SAT di Pergine Valsugana e fu inaugurato il 7 ottobre 1978 in occasione del 84° Congresso della SAT. Edificato con pietre del luogo, semplice ed austero, ma dotato di tutti i servizi indispensabili, costituì immediatamente una apprezzata meta escursionistica e punto d’appoggio per la traversata del Lagorai e il Sentiero Europeo E5. Negli ultimi anni il rifugio è stato ristrutturato, ampliato e fornito dei servizi necessari.