Molta storia, poche parole: a caccia di letteratura sull’Alpinismo Trentino

In Trentino abbiamo avuto molti alpinisti importanti, che però raramente hanno raccontato le loro imprese in prima persona. 

Molti alpinisti e pochi scrittori, in confronto a quel che si osserva nel resto dell’arco alpino: le altre regioni hanno dato i natali a miriadi di alpinisti-scrittori. Noi invece abbiamo una storia di Alpinismo che non ha nulla da invidiare a nessuno, ma che si racconta di meno… forse in parte la “colpa” è nel carattere stesso dei nostri conterranei: riservati, modesti e non del tutto consapevoli dell’interesse popolare verso le imprese su roccia.

Un po’ più rappresentate sono le descrizioni degli itinerari alpinistici e le biografie, mentre manca quasi completamente una panoramica generale su quello che è stato l’Alpinismo Trentino in centocinquant’anni di storia. E maggiore attenzione è stata rivolta alla storia dell’associazionismo grazie agli studi promossi da Carlo Ambrosi e Michael Wedekind.

Riccardo Decarli apre la traccia tra i libri della Biblioteca

Il Bibliotecario della SAT Riccardo Decarli, che conosce e custodisce la Storia della Letteratura dell’Alpinismo Trentino, ci accompagna in un percorso attraverso tre secoli, alla scoperta di come l’Alpinismo è stato narrato dai suoi protagonisti Trentini e dai grandi scrittori internazionali. 

Dalle cronache delle ascensioni sul Bollettino SAT a inizio Novecento, all’”Addio alle Armi” di Hemingway, passando per le imprese alpinistiche Trentine in Patagonia; dall’antologia delle frasi di Detassis illustrata da Vettori alla lunga carriera di Cesare Maestri, che con la moglie Fernanda porta in modo rivoluzionario una voce femminile nel mondo alpinistico.

Un affascinante viaggio tra montagne di libri, un tesoro da scoprire e riscoprire, perché non finirà mai di farci crescere ed emozionare, e soprattutto ci porta a leggere con più consapevolezza il nostro presente.

Foto: archivio PAT

Nel campo dei récit d’ascension si nota come nella prima metà del Novecento essi siano stati pubblicati quasi esclusivamente su periodici, in particolare quelli della SAT. Il primo, di notevole interesse, è il racconto di Carlo Garbari, con il quale ricostruisce il primo tentativo di salita del Campanile Basso nel 1897 (Annuario SAT 1896-98). Con l’interruzione della serie degli Annuari nel 1904 (ripresi poi in maniera sporadica fino agli anni trenta), la SAT decide di inaugurare un nuovo periodico, il Bollettino. Su queste pagine compaiono interessanti racconti di scalate; testi brevi, testimonianza di un alpinismo che sta mutando in senso sportivo. Quello della SAT è quasi un monopolio, ma in realtà qualche interessante articolo compare anche sulle pagine de Lo sport fascista, sul quotidiano Il Brennero (dal 1924) e su Il Trentino: rivista della Legione trentina (dal 1925 al 1943). Un panorama piuttosto desolante, sollevato in parte dall’opera di Pino Prati, autore nel 1926 della prima completa guida alpinistica delle Dolomiti di Brenta, pubblicata sotto gli auspici della SAT nella prestigiosa collana Guida dei monti d’Italia.

L’anno dopo, appena venticinquenne, Prati precipita dal Campanile Basso con l’amico Giuseppe Bianchi. Di lui ci rimangono alcuni articoli e un diario Ricordi alpini, curato da Claudio Ambrosi e messo in stampa dalla SAT nel 2006. La scomparsa di Prati priva il Trentino di quello che poteva diventare il suo primo alpinista scrittore di notevole livello. Giungiamo così al 1935, quando nelle librerie compare l’opera dell’alpinista trentino Marcello Pilati. Arrampicare: storie di roccia è il primo récit d’ascension in salsa locale. Si tratta di un’opera pregevole – pubblicata nella prestigiosa collana Montagna, diretta da Giuseppe Zoppi, della casa editrice L’Eroica di Milano – arricchita dalle fotografie dei Fratelli Pedrotti, con prefazione di Angelo Manaresi. L’opera conobbe un certo successo, con una seconda edizione nel 1944, una terza nel 1964 e una ristampa anastatica a cura del CAI nel 2012; queste varie edizioni contengono significative aggiunte. Anche Pilati ebbe una vicenda personale pregna di sfortuna, tenente della Tridentina, morì in Russia per le percosse di un italiano passato ai sovietici.

Noto e apprezzato il libro di Arturo Tanesini Il diavolo delle Dolomiti Tita Piaz (Milano, L’Eroica, 1941), all’epoca contribuì a creare un’aura leggendaria attorno alla guida fassana. Lo stesso Piaz darà poi alle stampe Mezzo secolo d’alpinismo (Bologna, Cappelli, 1947) e il postumo A tu per tu con le crode (Bologna, Cappelli, 1949). Si tratta di pagine che travalicano il solo aspetto alpinistico, opera di un valligiano, che della montagna ha fatto la sua professione e che al mestiere di guida alpina ha infuso una connotazione originale e moderna.

Parlando di guide alpine non è possibile non ricordare Bruno Detassis, una delle figure più significative dell’alpinismo trentino, capace di fare da ponte tra il primo dopoguerra e il secondo. Bruno non ci ha lasciato nessuno scritto, per avvicinarsi alla sua figura risulta fondamentale la biografia di Fabrizio Torchio e Josef Espen Bruno Detassis il custode del Brenta (Torino, Vivalda, 1995). Divertente l’antologia – Entant che no te gai da far… – curata nel 2018 dai figli con le frasi celebri del loro famoso genitore, abbellite dalle illustrazioni di Fabio Vettori.

Risulta un po’ più ampio il campo delle biografie. Due sono riferite ad altrettante figure centrali dell’alpinismo dolomitico, Renzo Videsott e Giorgio Graffer. L’attività alpinistica di Videsott, unitamente al suo ruolo centrale nella protezione della natura in Italia e non solo, è tracciata da Luigi Piccioni in Primo di cordata (Trento, Temi, 2010). Le scalate e i voli acrobatici di Graffer sono invece racchiusi in Vita spericolata di Giorgio Graffer, di Riccardo Decarli (Trento, SAT, 2010). 

Le biografie collettive – di guide alpine e di alpiniste – richiedono una descrizione apposita che qui ora non è possibile, ma non è escluso che verrà trattata in futuro.

Dagli anni Cinquanta in poi la produzione narrativa degli alpinisti trentini comincia a  prendere quota e il panorama si arricchisce. Il primo nome è quello di Cesare Maestri. Non è ancora legato al Cerro Torre, quando esordisce con “Lo spigolo dell’infinito” (Manfrini, 1955), un buon libro. È invece già segnato dalla Patagonia quando dà alle stampe “Arrampicare è il mio mestiere” (Garzanti, 1961); ha poco più di trent’anni, ma già una carriera alpinistica eccezionale, tanto da destare l’attenzione di Dino Buzzati, che gli regala l’introduzione a questo libro, che merita uno dei primi posti nella classifica di questo genere. Il volume verrà ripubblicato nel 1964, 1972, 2012-2014, in tedesco nel 1963 e in e-book nel 2015. In totale Maestri dà alla luce una decina di titoli: “A scuola di roccia con Cesare Maestri” (Cappelli, 1965), “Le montagne della luce: diario africano di un viaggio nel cuore delle tenebre”, scritto con Giorgio Moser (ERI, 1976), “Il ragno delle Dolomiti” (Rizzoli, 1981), “Dare un senso alla vita” (Mame, 2014). Due titoli meritano una menzione speciale: “Duemila metri della nostra vita”, il cui maggiore interesse è dato dalla scrittura a due mani con la moglie Fernanda (Garzanti, 1972, poi riedizioni nel 1981, 2002 e 2011). In un periodo storico nel quale l’emancipazione femminile è tema di scontri, per non parlare di ciò che accade sulle pareti, Maestri dà voce alla moglie, proponendo coraggiosamente un nuovo sguardo sulle imprese alpinistiche. L’altro libro che si fa notare è uno degli ultimi e forse dei migliori, “…E se la vita continua” (Baldini&Castoldi, 1996), con altre edizioni nel 1997, 2002 e 2009.

Legato a Maestri è uno dei numi tutelari dell’alpinismo trentino, colui che battezzò lo stesso Maestri col soprannome di “Ragno”: Marino Stenico. Meno propenso all’autobiografia rispetto al discepolo, Stenico è stato un notevole storico e i suoi scritti ancora oggi sono preziose basi per chiunque si interessi all’alpinismo trentino. Direi anzi che si possono prendere come modello formale. “Cento anni di alpinismo trentino: dai pionieri alla Grande guerra”, pubblicato in “La SAT cento anni” e “Il Campanile Basso: storia di una montagna” 1975 e 1976, anche in tedesco nel 1975, sono il suo migliore lascito e con rammarico pensiamo a quanto avrebbe potuto ancora scrivere se una quarantina di anni fa non fosse caduto banalmente in quella palestra di roccia a Ragoli. La sua carriera alpinistica, iniziata negli anni Trenta e drammaticamente interrotta nel 1978, è stata ricostruita dalla moglie, Annetta Dalsass, in: “Marino Stenico: una vita di alpinismo” (Nuovi sentieri, 1987); la stessa è co-curatrice anche di: “Alpinismo perché: scritti autobiografici di alpinisti contemporanei” (1981).

L’altro alpinista che ha fatto da ponte tra il prima e il dopo la guerra è stato Gino Pisoni. Anche lui appare distante dall’autobiografia, tanto che dobbiamo ringraziare (e molto) Gino Callin Tambosi, che ci ha lasciato il bel libro “Dolomiti con amore: le imprese alpinistiche di Gino Pisoni con la corda di canapa, pochi chiodi e le scarpe di pezza” (Arca, 1994). Volume da tenere a portata di mano anche per il bel corredo fotografico.

Grande antagonista di Maestri, non solo alpinisticamente, è stato Armando Aste, che però con il “Ragno” ha sempre mantenuto un bel rapporto di amicizia e rispetto. I libri di Aste dovrebbero essere rivalutati, soprattutto i primi: “Pilastri del cielo” (Trento, Reverdito, 1975), ripubblicato nel 2000 e 2006; e “Cuore di roccia” (Calliano, Manfrini, 1988). Negli ultimi anni di vita, presso l’editore Nuovi sentieri, ha pubblicato in successione altri cinque volumi: “Alpinismo epistolare: testimonianze” (2011); “Commiato: riflessioni conclusive di un alpinista dilettante in congedo” (2013); “Nella luce dei monti” (2015); “Stagioni della mia vita” (2016); “L’Angelina: vita agreste di un tempo lontano” (2017).

Su un versante completamente opposto si colloca Rolly Marchi. Più giornalista e scrittore che alpinista, è stato un grande appassionato di sport in generale e di sci in particolare. Autore di romanzi, qui sta la sua originalità, ambientati in montagna: “Le mani dure” (1974, con varie riedizioni), ma anche: “Il silenzio delle cicale”, “Un pezzo d’uomo”, “Ride la luna”, “Il tram della vita e altri quattordici racconti”, “Neve per dimenticare”, “Parole bianche”, “E ancora la neve”, “Se non ci fosse l’amore”…

Legato a Marchi da lunga amicizia è l’ingegner Franco Giovannini. Autore di libri di viaggio e di riflessione: “Tibet e dintorni: viaggi del disincanto” (1999), “Zingarando: del ragno Luigino in giro al mondo” (2005), “Fra cinque minuti l’aereo parte: tra le bufere della Calotta Polare Artica” (2010) e “Montagne e diavoletti: che fine ha fatto l’alpinismo?” (2012). Il suo titolo migliore però rimane “Arrampicare era il massimo” (1994), ottimo quadro dell’alpinismo trentino del secondo dopoguerra e uno dei migliori del genere.

La Patagonia e le Terre estreme del Sudamerica sono da molto tempo terreno d’azione dei trentini. Oltre alla bellezza e alle difficoltà eccezionali delle pareti, tra le motivazioni che hanno portato ai confini del mondo i trentini non va dimenticata l’emigrazione dei loro avi o degli stessi alpinisti. Si colloca in questo quadro l’opera di Cesarino Fava, emigrato in Argentina, divenne il principale motore delle spedizioni trentine. La sua vita, come un romanzo, è narrata nel suo unico libro: “Patagonia: terra di sogni infranti” (1999, ripubblicato nel 2015 e 2017).

Trattando i pionieri trentini dell’alpinismo in Sudamerica è doveroso ricordare l’iniziatore di questa saga, Clemente Maffei, ‘Gueret’, che nel 1956 salì per primo il Sarmiento assieme a Carlo Mauri. Grazie alle sue figlie oggi possiamo leggerne le imprese in: “Guerèt Rampagaröl: diario della guida alpina Clemente Maffei” (1993, 2. ed. 1997, 3. ed. 2006).

Gli ultimi vent’anni segnano un notevole aumento di testimonianze e di interesse, ma di questo parleremo la prossima volta.

In queste tristi e drammatiche settimane più volte è stata utilizzata la metafora della guerra. Linguisti, pedagogisti e altri, per motivi diversi, hanno messo in guardia, facendo notare la fallacità e pericolosità di simili accostamenti. Forse in futuro le guerre prenderanno questa forma, per ora sforziamoci di utilizzare un linguaggio consono. Funzionale a questo scopo potrebbe essere la lettura o rilettura di alcuni libri sulla Grande Guerra. Abbiamo a disposizione una bibliografia vastissima: memorialistica di combattenti e civili, saggistica, romanzi, canzoni, poesie… Un campo così vasto che una selezione segue inevitabilmente gusti e conoscenze personali e per questo è, in ogni senso, parziale. Possiamo limitare un po’ il campo ponendo attenzione, pur con qualche eccezione, alla sola narrativa riferita all’area trentina, ovvero, il confine italo-austriaco.

Comincerei con “Addio alle armi” (1929), una delle opere più importanti di Ernest Hemingway. Lo scrittore americano partecipò nel 1918 al conflitto come autista della Croce Rossa americana. In quei mesi fu a Schio, ai piedi del Pasubio, poi a Gorizia e ancora vicino a Treviso; qui fu gravemente ferito e successivamente trasferito all’ospedale di Milano, dove conobbe una giovane infermiera. Guarito e decorato tornò al fronte. Questa vicenda autobiografica gli fornì il materiale per il romanzo, che ambientò un anno prima della vicenda reale. Oltre alla storia sentimentale, l’opera di Hemingway è decisamente antimilitarista, proprio per questo in Italia poté circolare liberamente solo a partire dal secondo dopoguerra.

Rimanendo nel campo dell’opera di fantasia svetta quello che probabilmente è il più bel libro di Mario Rigoni Stern, “Storia di Tönle” (1978). Tönle Bintarn è un pastore, contrabbandiere, eternamente in moto, testimone di grandi eventi, impegnato a fondo nella lotta per la sopravvivenza. Si può scorgere qualcosa del “Sergente della neve” in questa ostinazione e proprio per questo “Storia di Tönle”, a cui solitamente viene abbinato “L’anno della vittoria” (1985), è un libro da tenere sempre a portata di mano.

Con un salto vertiginoso ci caliamo nella lettura del “Piccolo alpino” (1926) di Salvator Gotta. Scritto quando la Grande Guerra era terminata da poco, questo romanzo formativo ha impressa la lezione del “Cuore” deamicisiano.

Un altro balzo ci conduce tra le pagine di Robert Musil. L’autore di “L’uomo senza qualità”, durante la Grande Guerra fu in Trentino, tra Valsugana e Valle del Fersina. Tra le nostre montagne compose la novella “Grigia”, che si può leggere nel pregevole volume “Musil en Bersntol” edito dall’Istituto Culturale Mocheno nel 2012. Risale a venticinque anni prima la pubblicazione di “La guerra parallela”, importante per conoscere la complessità dello scrittore di Klagenfurt.

Entriamo dunque nel campo della memorialistica. Uno dei migliori libri del genere è quello di Emilio Lussu “Un anno sull’Altipiano” (1945). Titolo così noto che forse è superfluo dire qualcosa sulla vicenda degli eroici fanti della Brigata Sassari impegnati contro gli austriaci – e contro deliranti ufficiali italiani – sull’Altopiano dei Sette Comuni. Nell’edizione che ho sotto mano (Einaudi, 2014) trovo un’introduzione di Rigoni Stern, alcune righe meritano di essere sottolineate: “Un giorno a Roma, dopo aver visto il film con lui [Lussu] e Rosi [regista del film “Uomini contro” tratto dal libro di Lussu], mentre lo accompagnavo verso piazza Adriana, mi disse come seguendo un suo pensiero: ‘… tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato…’.

L’altro caposaldo di questo genere è, a mio avviso, “Le scarpe al sole” (1921), libro d’esordio di Paolo Monelli. Un racconto asciutto, drammatico, talvolta non facile, ma vero, terribilmente vero. La vita degli alpini tra Valsugana e Altopiano dei Sette Comuni esce dalle pagine e rimane impressa a lungo nella mente del lettore.

Questa carrellata termina con Felix Hecht, tenente dei Kaiserjäger, autore di un bellissimo diario, pubblicato in due parti: “Diario di guerra dal Cadria e dallo Stivo” e “Diario di guerra dal Corno di Cavento”. Hecht compilò questo scritto utilizzando la stenografia; la vicenda del documento, il ritrovamento, la traduzione e altri risvolti meriterebbero a loro volta un racconto… Pubblicato in varie edizioni il diario di Hecht è una preziosa testimonianza della vita in montagna durante la guerra e un’ulteriore prova dell’assurdità dei conflitti. 

Prima di azzardare paragoni, fermiamoci almeno un istante a pensare e ricordare.