Sui sentieri dei 150 anni

Sentiero 15 – I Monti d’Anaunia: dalla Mendola al Roèn

Una montagna, un’ideologia: dalla minaccia delle streghe al battesimo di Castiglioni

L’itinerario insiste su uno dei più lunghi sentieri gestiti dalla SAT, percorrendone, però, solo una parte. Realizzato nel 2003 a seguito di un accordo tra SAT, CAI Alto Adige e Alpenverein Südtirol, collega una serie di brevi percorsi creando un itinerario che si snoda sulla dorsale o in sua prossimità, fra la Val di Non e la Val d’Adige.

Gruppo Montuoso: Monti d’Anaunia / Roèn

Comuni: Cavareno, Amblar – Don, Ruffrè – Mendola

Difficoltà Generale: E

Sentieri SAT: O500

Itinerario: Dal Passo della Mendola al Monte Roèn, passando per il Rifugio Malga Roméno

Dislivello salita / discesa: ↑747 m / ↓0 m

Nome Località N. segnavia Quota (m.s.l.m.) Distanza (metri) Andata (hh:mm) Ritorno (hh:mm) Diff.
Passo della Mèndola – b. 521 CAI 1364 00:20
Rifugio Genzianella [O500] 1399 1190 00:25 00:35 T
Rifugio Mezzavia – b. 538 CAI [O500] 1579 2380 00:45 00:10 T
Sas de la Predaia [O500] 1626 510 00:10 00:40 T
Rifugio Malga Roméno – b. 560 CAI [O500] 1766 2390 00:50 00:20 T
Quota 1973 [O500] 1973 1060 00:30 00:20 E
Monte Roèn – b. 523 CAI [O500] 2111 880 00:20 00:15 E
Totali 8410 03:00 02:20

Dal Passo della Mèndola si arriva, per strada, al Rifugio Genzianella e alla Malga Mezzavia, dopo la quale inizia la salita che aggira, fra i prati, un largo dosso e giunge al Rifugio Malga di Roméno, importante snodo escursionistico sulla via per il Rifugio Oltradige-Überetscherhütte che da qui si raggiunge in circa 20 minuti per il tracciato 560. Dopo una breve spianata si guadagna rapidamente quota e si sale (in direzione Sud – Sud Ovest) dapprima ripidamente nel bosco, poi con pendenza via via più dolce fra i pascoli chiazzati di mughi, fino a raggiungere, ignorando sulla sinistra l’attacco della via ferrata, la piatta cima del Monte Roèn, una delle più panoramiche di tutta la regione. Vivendo un’esperienza indimenticabile, immersi in un ambiente estremamente tranquillo e dalle spiccate note bucoliche, senza alcun ostacolo frapposto, con la vista possiamo liberamente spaziare a 360 gradi per decine e decine di chilometri lungo il frastagliato mare di vette che si susseguono ovunque all’orizzonte.

Come noto, da tempo immemorabile le streghe si davano appuntamento sulla cima del Roen, il cui nome tradisce una vocazione piuttosto luciferina se è vero che deriva da “rovi”. I viandanti erano terrorizzati: guai avventurarsi lungo i sentieri all’imbrunire e si potevano vedere questi esseri malvagi, dotati di enormi cannucce, rubare il vino ai convogli di passaggio e poi andare a far sabba sulla vetta. Ci pensò il Concilio di Trento a mettere ordine e delle megere non si vide più nemmeno l’ombra. Sul finire del XIX secolo una nuova genia di frequentatori si affacciò sul Roen, i turisti. Per meglio accoglierli si pensò alla costruzione di un rifugio (oggi scomparso) e a una funicolare, prodigio della tecnica, che dal 1903 univa Caldaro alla Mendola, superando 854 metri di dislivello con una incredibile inclinazione del 64%.

Questo il divertito resoconto dell’escursione, alla quale partecipò anche il consigliere SAT Piscel, avvenuta nell’ 1895 poco prima dell’inaugurazione del rifugio: «Il sacco l’ho con me… E allo spuntar del sole… no purtroppo, il sole non era ancora sorto ed appena ci si vedeva e già un impertinente coro di canti, di grida, di fischi, suonava la sveglia sotto le finestre dei dormiglioni, che scommetto in quel momento avrebbero regalato metà del Roen per un’oretta di sonno. Ma basta ci vuol pazienza, l’orario è orario e infatti alle quattro e dieci minuti col suono misurato delle scarpe e delle punte ferrate che battevano sui ciotoli, si usciva in schiera serrata dal villaggio, per muovere all’assalto di quella schiena boscosa, che così si presenta il Roen a chi lo guarda da Cavareno. Dissi schiera serrata, ma naturalmente dopo un quarto d’oretta di marcia, seguendo le buone regole della tattica ci dividemmo. L’avanguardia, sembrava avesse le ali al piede, e su e su, ben presto la perdemmo di vista. Noi della retroguardia eravamo comandati nientemeno che da Minerbi, che i maligni dicono abbia special vocazione per il commando delle retroguardie, e che in quel giorno era proprio di vena… I nostri compagni erano sulla cima da quasi un’ora, e noi altri eravamo ancora su qualcuno dei comodi praticelli del pendio, magari seduti per essere più ad agio, a ridere delle tirate di quel caro matto, al quale ad onore del vero, bisogna dire, teneva bordone un’epidemia generale di buonumore in tutta la compagnia. La strada è tanto comoda e bella, e tanto più era comodo e bello il nostro sistema di marcia, che arrivammo alla cima senza accorgercene e posso garantire che non eravamo sudati ed in compenso di quell’ora buona che si aveva perduto, scommetto, che se è vero che ogni risata aggiunga un filo alla trama della vita, noi quel giorno ne abbiamo tessuto una tela. Del resto cosa importa correre, se quando giungemmo lassù, tutto il panorama bellissimo era ancora al suo posto, e l’altro panorama più vicino, ma non meno attraente degli apparecchi per la colazione era intatto anche quello? Ma no, si può essere affamati come un cosacco, e imbastiti di prosa positiva come un bottegaio olandese, non è alla colazione che si pensa in quel primo momento, tanto gagliardo è il soffio della serena poesia della natura che ci batte in viso appena giunti lassù. Al di sotto, come un’immensa carta geografica a rilievo si distende da una parte la valle di Non, dall’altra quella dell’Adige, e più lontano altre vallette, altri monti e gruppi e catene di montagne che s’incalzano e sembra corrano l’una dietro l’altra a nascondersi nella vampa d’argento; al di sopra giganti severi e canuti a guardia di quel Paradiso terrestre i ghiacciai, quelli dell’Adamello, la Presanella, la Tosa, il gruppo del Cevedale e risplendenti in lontananza i colossi delle Alpi Centrali. Non si vorrebbe mai ristar di guardare, ma a dir vero in noi dopo un certo tratto “Più che il veder poté il digiuno” e sdraiatisi sull’erba dietro il rifugio si fece la distribuzione dei viveri. Al tepore di quel bel sole d’Agosto che lassù si saluta, come un amico, accarezzati da un’arietta pregna di tutti i balsami dell’Alpe, arietta che merita essa sola, si faccia 2000 metri di salita per andarla a trovare; davanti tutto quel bellissimo quadro, e in mezzo ai motti, alle facezie, sgorganti da quel benessere acquistato più o meno col sudore della nostra fronte, e un pochino diciamolo pure davanti a quelle provvigioni, desiderate da un paio d’ore come la manna nel deserto, era un vero Paradiso». (Antonio Piscel – “L’inaugurazione del rifugio Roen”, IN: Annuario SAT, A. 19, 1895).

Tredici anni dopo, il 28 agosto 1908, presso l’Hotel Mendola, vide la luce uno dei più grandi alpinisti italiani di sempre, Ettore Castiglioni. La famiglia milanese era in vacanza in Val di Non e qui “Nino” aprì gli occhi scorgendo subito montagne e vasti panorami. Chissà se quella visione neonatale influì sul suo percorso di vita che lo vide diventare Accademico del CAI, apprezzato scrittore di guide alpinistiche nella collana “Guida dei monti d’Italia” (Pale di San Martino; Odle, Sella e Marmolada; Dolomiti di Brenta; Alpi Carniche) e non solo. Castiglioni terminò la sua esistenza terrena al Passo del Forno il 12 marzo 1944, in fuga dalla Svizzera, dove era stato bloccato dai gendarmi. Ufficiale degli alpini, aveva costituito un gruppo di partigiani in Valpelline e aiutato nell’espatrio antifascisti ed ebrei, tra i quali il futuro presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi. Per la sua opera, lo Stato d’Israele lo ha proclamato “Giusto tra le nazioni”. 

Poco distante vide la luce un importante scienziato del XIX secolo, Giovanni Canestrini (Revò 1835 – Padova 1900). Oltre agli studi di biologia e aracnologia, è ricordato quale divulgatore dell’opera di Charles Darwin, nonché suo traduttore in italiano. La SAT lo nominò suo socio onorario, anche se non tutti i trentini ne apprezzavano le teorie. Infatti il busto in marmo, opera di Andrea Malfatti, collocato in piazza Dante, venne vandalizzato dai cattolici, strenui oppositori delle teorie evoluzioniste.

Dall’estate 2020 sui Monti d’Anaunia, ovvero nelle zone dell’itinerario proposto, è tornato il lupo. Dopo la sua scomparsa dai territori provinciali verso la metà del XIX secolo, il lupo è tornato naturalmente già a partire dal 2010 nella parte più meridionale della provincia. Questo ritorno è parte di un processo molto più ampio di ricolonizzazione, completamente naturale, del territorio italiano da parte di questo canide. Negli anni ’70 i lupi, minacciati dalla continua persecuzione da parte dell’uomo, erano localizzati sugli Appennini tra l’Abruzzo e la Calabria, in numero non superiore al centinaio; da quel momento, anche grazie all’inserimento della specie nelle liste degli animali protetti, si è assistito ad una lenta ripresa della specie dovuta a diversi fattori intrinseci fra cui l’elevata adattabilità e la capacità di dispersione, collegata alla capacità di muoversi anche in habitat sfavorevoli. Tutti questi fattori, sommatisi al progressivo abbandono da parte dell’uomo di ampie zone rurali e vallate montane, ha portato negli anni alla colonizzazione di gran parte del territorio italiano. Il lupo, infatti, attualmente occupa praticamente tutti gli Appennini e gran parte delle Alpi e sta continuando ad espandere il proprio territorio. 

Canis lupus (Linnaeus, 1758) è un mammifero appartenente all’ordine dei Carnivori e più nello specifico alla famiglia dei Canidi. È un animale estremamente elusivo, sia nei confronti dell’uomo, con cui evita il più possibile qualsiasi contatto ravvicinato, sia nei confronti di altri animali, e ciò lo rende un predatore estremamente efficiente grazie anche ai sensi molto sviluppati, molto più di un cane. Attualmente sono state descritte 11 sottospecie di lupo fra cui quella italiana: Canis lupus italicus, derivante dall’isolamento geografico che il lupo italiano ha avuto negli ultimi secoli e diversificata dalle altre sia da un punto di vista morfologico che genetico. Nel 2013 sui monti della Lessinia, tra Veneto e Trentino, è avvenuto l’incontro con formazione di un branco fra una lupa proveniente dalle Alpi Occidentali, e quindi della sottospecie italiana, e un lupo proveniente dalla popolazione dinarica. Tale incontro è destinato nel tempo a cancellare le diversità fra queste sottospecie ma è senza dubbio un evento importante e favorevole per l’arricchimento della diversità genetica del lupo e, quindi, per la sua conservazione. Ad oggi in Trentino i lupi sono circa 90, con 17 branchi accertati in varie parti della provincia, fra cui, appunto, i Monti d’Anaunia, che rendono ancora più preziosi questi splendidi luoghi.

Una piccola curiosità riguarda il comune augurio positivo “in bocca al lupo” che si riferisce al comportamento della lupa madre di una cucciolata la quale, in caso di pericolo, prende i suoi cuccioli con la bocca per portarli in salvo. L’abituale risposta “Crepi!” non è quindi molto bella e sicuramente neanche bene augurante, in quanto legata alla cultura del “lupo cattivo” nata nel tempo da credenze e convinzioni perlopiù errate.

Circa 230-228 milioni di anni fa, molte regioni mediterranee vennero interessate da imponenti eventi vulcanici ancora poco compresi. Nelle Dolomiti l’attività fu particolarmente intensa e le rocce derivate da questa vivace attività vulcanica, costituite da basalti, sono ben visibili anche alla confluenza tra le valli di Non e Sole, presso la forra di Mostizzolo. Qui affiorano circa cento metri di spessore di lave scure che poi si stendono, assottigliandosi progressivamente, fino alla zona della Mèndola e che fluirono facilmente sul fondo degli antichi mari tropicali, espandendosi a macchia d’olio.

220 milioni di anni fa un basso mare ricoprì una vastissima area costiera compresa tra la Francia, il Veneto e oltre, fino alla Grecia. Tutto il territorio occupato ora dalle Alpi Meridionali era caratterizzato dalla presenza di una piana costiera poco profonda, orlata di lagune che la collegavano al mare aperto. La formazione tipica di questi ambienti è la Dolomia Principale, la formazione rocciosa più diffusa nella conca anaune. Tutto il fianco orientale dell’ampia valle, infatti, è modellato in questa formazione che culmina con le creste del Roèn, del Corno di Tres, della Cima d’Arza fino a sud, alla stretta della Rocchetta. È interessante notare come, dal punto di vista tettonico, le formazioni rocciose della catena del Roèn siano sì interessate da faglie, ma i movimenti relativi e legati ai meccanismi orogenetici non hanno causato dislocazioni degne di particolare nota. Tutta la valle è interessata da una morbida piega sinclinale (concavità verso il basso) e, di conseguenza, il Torrente Noce ha potuto lavorare a lungo per scavare la forra che, successivamente, è stata sfruttata dal punto di vista idroelettrico con lo sbarramento della diga di Santa Giustina, risalente alla seconda metà del secolo scorso. Dalla cima del Monte Roèn ci si può affacciare sul precipite versante che sprofonda per 1.800 metri di dislivello verso la Val d’Adige e riconoscere tutta la serie stratigrafica con le formazioni rocciose che costituiscono il massiccio, partendo dalle più recenti, la Dolomia Principale della cima (Triassico) fino a quelle di origine vulcanica (Perimiano) alla base, presso il Fiume Adige. La visione è ampia e spazia ancora di più verso est, oltre la Val d’Adige, dove all’orizzonte si possono riconoscere le caratteristiche sagome dei gruppi dolomitici più famosi. Da qui, meno di 20.000 anni fa, inoltre, si poteva godere di un’eccezionale colpo d’occhio sull’ampia confluenza dei ghiacciai würmiani che, con le ciclopiche lingue vallive della Val d’Adige, della Val Passiria e dell’Isarco, si univano sopra l’ampia conca di Bolzano, raggiungendo la quota di circa 1.800 m, da dove poi si avviavano verso sud, lungo la Val d’Adige e verso la Pianura Padana, fino a Peschiera.

Rifugio Roèn / Malga di Romeno

località quota proprietà recapiti posti letto locale invernale
Malga Romeno versante Nord Monte Roèn m 1773 ASUC Romeno

340 1559707

No

Apertura: stagione estiva